Il seguente brano è tratto dal mio libro “Là dove ho voluto andare” ormai esaurito, rivisto ed ora in prossima ristampa.
LA FORESTA PRIMARIA ED IL BONGO
E poi dicono che i safari sono cari!
Vi offrono 15 giorni di sauna nel verde, con corsi di ginnastica e footing in ambiente incontaminato, passeggiate in superaccessoriate canoe, la possibilità di conoscere un milione di specie di insetti, mordaci e non, una seduta quotidiana di fanghi, birra fresca a volontà e piatti di selvaggina ad ogni pasto, il tutto a 1000 chilometri dalla città più vicina, e pretendete di averlo per quattro dollari ?
E poi, amici miei, il bongo, il mitico, fantomatico, raro, elusivo, aristocratico, fantastico, bramato bongo: un animale fatto il quale potete anche smettere !
Un vero investimento.
Scherzi a parte, è dura; ma se volete una caccia impegnativa, faticosa e coinvolgente davvero, nuova e non scevra di qualche emozione, la foresta primaria è il posto per voi.
Vedete solo di arrivarci in buona forma fisica e disposti a soffrire un po’ per i primi due o tre giorni, mentre vi acclimatate. Arrivare in foresta è come entrare in una serra per fiori tropicali. Il calore e l’umidità vi prendono alla gola. Appena scesi dal piccolo aereo, dopo aver aggunatato il minuscolo rettangolino della pista, è quasi spaventoso e penserete di non farcela.
Per il resto, se amate caccia e natura, vedrete cose incredibili e vi entusiasmerete come non mai.
A circa 2 gradi di latitudine nord e 16 di longitudine est, alla confluenza dei fiumi “Ngokò” e “Shangà”, si incontrano i confini di tre Paesi: Cameroun, Rep. Centrafricana e Congo Brazzà.
Sono i Paesi della grande caccia in foresta.
Puntando il compasso alla confluenza dei fiumi, si può tracciare un cerchio di circa 200 chilometri di raggio nel quale, in due dei tre Paesi, è possibile cacciare un discreto numero di interessanti e rari animali: il bongo, il forest sitatunga, il dwarf buffalo, il giant forest hog, il red river hog, lo yellow back duiker ed un’infinità di altri piccoli duikers, nonché il leopardo e l’elefante (limitatamente, per quest’ultimo, al Cameroun, con una caccia relmente difficile e pericolosa e risultati di notevole aleatorietà).
Ma, al di là della caccia, è la foresta primaria la vera protagonista di un contatto con l’Africa completamente diverso da tutti gli altri, nuovo ed affascinante, imprevedibile e sorprendente come la gente di questi luoghi, i Pigmei, buoni, enigmatici compagni ed insuperabili guide.
Seduto con le spalle alla costolatura di un enorme tronco, guardo in alto; lassù, tra festoni di liane e piante parassite, svetta e scompare, a quaranta e più metri di altezza, l’enorme colonna grigio-argentea del mio albero.
Davanti a me, nella luce perlacea della sera, tra lievi sfumature di nebbia, scorre, e pare assolutamente immoto, il grande fiume “Shangà“; non uno sciacquio, non un rumore.
La stanchezza della lunga camminata comincia a farsi sentire e, mentre accendo una sigaretta, mi chiedo se era davvero così, quando è nato il mondo…
Respiro un’aria densa, quasi palpabile, alimento del rigoglio verde che esplode dappertutto e che continuamente divora se stesso ricreandosi, come la vera essenza della vita; e qui l’accetti com’è perché è l’unica cosa che “è”. Evidente, chiara, senza orpelli, anche se quell’umano “perché?” di fondo, irrisolto ed irrisolvibile, resta come una piccola spina nel piede.
Qui si avverte un solo perché, quello che, non so Voi, ma io devo ancora risolvere
L’eccellente guida locale mi conosce bene e la sua voce mi arriva tra gli alberi, riverberando il suo gergale francese come nel colonnato di una cattedrale: “Michelange, dormi o stai filosofando? Tira su il tuo quintale chè il campo è ancora lontano!”.
L’appetito e la voglia di una doccia fanno il resto e si riprende la marcia verso il luogo, a me totalmente ignoto, ove abbiamo lasciato la macchina che, sull’unica pista della zona, ci riporterà al campo. Facciamo un cenno ai pigmei.
Con assoluta precisione i nostri “piccoli uomini” ci riportano al mezzo.
Poi mentre la Toyota rotola liscia sul fondo sabbioso della pista ormai nel buio, faccio mente locale: siamo all’ottavo giorno di safari, ho visto i gorilla, ho sparato all‘ilochero, ho intravisto elefanti e duikers ma, per il bongo, il principale, l’unico vero obiettivo della spedizione, ancora niente.
Eppure se ne vedono in discreto numero, ma è un lampo e non voglio tirare al primo lembo di pelle rossiccia che vedo.
Be’, domani è un altro giorno.
Intanto mi godo il campo “alla francese” forse meno perfetto ma più allegro e confidenziale di quelli anglosassoni. Il francese è una bella lingua per scherzare e prendersi in giro, e c’è sempre qualche bottiglia di champagne in fresco.
Si è fatta ora di cena; tutti a tavola, io il più lontano possibile dalla lampada per la mia “poca simpatia” per gli insetti, ormai nota a tutti gli amici d’Africa.
Dopo, a letto, tra le lenzuola umide, prima che il sonno mi grazi, ascolto l’incessante brusio degli infaticabili insetti tra i rami ed il ritmico gocciolare delle grandi piante sotto la quotidiana pioggia notturna.
Sono gli eterni ritmi dell’orologio universale e….. noi ci preoccupiamo dei prossimi mesi……
Ma io, preoccupato per il mio bongo lo sono davvero e dopo la prima colazione, ancora al buio, mi dispongo a mettercela tutta; davanti ad una tazza di caffè controllo 1’express, le cartucce, asciugo il binocolo (per quel che serve), cambio il rullino nella Minolta e “ on y va”…
Alle prime luci siamo in una grande radura (retaggio di vecchi tagliatori di mogano) che sappiamo frequentata da animali durante la notte. Forse il terreno vi è particolarmente salino.
Tracce dovunque. Con un lieve sibilo, il capo tracciatore indica l’orma, freschissima, di un grosso bongo maschio; deve essersene andato da poco.
Basta un cenno del capo e abbiamo deciso: seguiamo questo.
In breve, guadati alcuni degli innumerevoli, limpidi ruscelli che solcano ovunque la foresta e spesso aiutano a camminare meglio, siamo nel fitto.
Il terreno è coperto da un soffice strato di foglie in decomposizione e si avanza senza far troppo rumore.
Un’altra cosa è evitare festoni, fogliame, liane spinose e non, che pendono dappertutto rendendo la marcia problematica; i pigmei se la cavano benissimo e passano senza apparente fatica. Ma io sono un metro e novanta per oltre cento chili e si capisce bene perché la natura non mi ha fatto nascere in foresta.
Il pigmeo in testa al piccolo drappello si ferma su di un piede solo, ascolta, annusa, si volta ed annuisce serio. Ha sentito, ha capito che il bongo è davanti a noi e procede tranquillo, al passo.
Ora viene il bello, occorre sperare nel terreno perché portarsi a tiro nel folto è estremamente problematico, senza allarmare l’animale.
Piano, con frequenti soste, continuiamo sulla traccia per un paio d’ore di monotona camminata ed io sto cominciando a perdere la concentrazione, memore delle infruttuose sgambate dei giorni scorsi.
All’improvviso la traccia, con un angolo retto, cambia direzione e sbuca su di una vecchia pista, molto ricresciuta, tracciata anni prima da tagliatori di legname.
Ci affacciamo con ogni prudenza.
La pista, cinquanta metri avanti, fa una curva e le impronte del bongo vanno in quella direzione, nettissime sul terreno rosso e sgombro. Non c’è un alito di vento.
Per la prima volta sento che è mio.
Lascio tutti indietro, verifico il fucile, tiro un respiro profondo e mi avvio, cauto e silenzioso nello stretto varco lasciato dalla vegetazione ricresciuta.
Non provoco alcun rumore, non c’è una bava d’aria e mi avvicino, sempre più teso, alla curva oltre la quale mi affaccio con grande prudenza.
Là, a trentacinque/quaranta metri da me, il bongo bruca le foglie tenere sul bordo della pista. Ci vediamo quasi nello stesso istante, lui alza la testa ed io l’express.
Mi dà di tre quarti anteriore. Collimo alla massima velocità tra petto e spalla e tiro il grilletto.
La forte detonazione è ovattata, quasi assorbita dalle pareti verdi.
Il bongo balza via e si infila nel folto in piena corsa. Lo sento sfrascare per un po’, poi più nulla.
I pigmei intanto, materializzatisi al mio fianco, annuiscono serissimi, come fanno quando sono contenti: “Patron, il est tombé“.
Appoggio una mano sulla spalla al primo tracciatore e gli faccio cenno di andare.
Ora, ricordando quanto mi hanno detto sulla pericolosità del bongo ferito, sostituita la cartuccia in prima canna, ci infiliamo nel fitto, sulla traccia. C’è molto sangue, per terra e sulla vegetazione.
Sono cento metri che sembrano due chilometri.
L’emozione e l’apprensione crescono, la gola è secca ed il cuore batte forte. Avrò davvero il mio bongo?
Poi finalmente ecco, in un raggio di sole che penetra fino a terra, qualcosa di rosso. E’ lui.
Mi accerto che non dia più segno di vita, poi mollo l’express al primo pigmeo che mi viene a tiro e lascio che gioia e commozione facciano il loro corso.
Ricordo quando da ragazzino leggevo del mitico bongo e pensavo… Mah, chissà?… Forse un giorno… e con la fede dei giovani nel futuro, magari ci speravo.
Ed eccolo qua!
Accendo una sigaretta per darmi un contegno e valutiamo il trofeo: grosso, lungo, un po’ chiuso, ma con splendide punte bianco-avorio; abbondantemente nel “Rowland Ward”.
La gioia è grande, mi sento spossato e leggero, come un po’ ubriaco.
Ma in fondo al cuore una punta d’amaro ed una piccola vocina maligna si fanno strada: “Ecco, ce l’hai, anche questa è fatta, e allora?… , che fai vecchio adesso, smetti…? E poi…?”.
“Be’… Be’… maledizione… On y va, al campo, allo champagne e poi, non c’è ancora…. il Marco Polo sheep? Non c’è, perduto in foresta, qualche grosso elefante ?
Oh sì, perdio, c’è ancora da fare”..
Sorrido cercando il sonno, sprofondato nella comoda poltrona dell’aereo che mi riporta nella mia vecchia, cara Europa; e ne ho ben donde: è andato tutto bene, torno ad abbracciare i miei (perdonate, ma non sono Rambo, e ci tengo), ho vissuto una splendida esperienza. La foresta ha veramente qualcosa di magico, di affascinante. e’ stato solo un arrivederci.
Michelangelo