
Nel mio primo safari in foresta avevo, come sempre accade in aree particolari, un obbiettivo primario: il bongo.
In quel meraviglioso ambiente, tuttavia, vivono anche altri interessanti animali: il forest sitatunga, il dwarf buffalo o bufalo nano e, naturalmente, l’elefante.
Ottenuto il bongo, intendevo cacciare anche il sitatunga ma, visto che lo volevano cacciare coi cani, forzandolo in acqua e sparandolo da una canoa, mi rifiutai.
Forse era l’unico modo, come dicevano i miei francesi al campo, per ottenere tale trofeo, ma la mia sensibilità di cacciatore non lo poteva accettare e così non ci pensai più.
Desideravo anche fortemente un incontro col misterioso bufalo di foresta, piccolo, rossastro, aggressivo come tutti i membri della sua specie e difficile da cacciare ma, per tutto il mio soggiorno, pur essendoci imbattuti un paio di volte nelle sue tracce, non riuscii a vederne uno.
Quando, un anno dopo, tornai laggiù, fui talmente impegnato nel tracciare il grosso elefante di cui vi ho narrato in queste pagine, che al dwarf buffalo non ci pensavo proprio. Ma si sa, quando meno te lo aspetti……
Ottenuto il mio grande elefante, stavo cercando di smaltire rabbia e delusione per la sparizione di quelle meravigliose zanne e per verità, per quanto i miei francesi mi consolassero dicendo che avrebbero fatto di tutto per recuperarle, non avevo più tanta voglia di andare a caccia. Ma tant’era, mancavano solo tre giorni alla partenza ( il piccolo aereo dei forestiers per Douala sarebbe stato il mio unico mezzo per tornare alla civiltà) e così, anche per non stare a rimuginare sull’accaduto, decisi di aggirarmi ancora un po’ in quello straordinario e magico mondo.

Chiesi che, il mattino successivo, mi portassero sulle rive del grande fiume Sangha. Intendevo poi, salutati i due affabili fratelli pescatori/traghettatori che avevano una capanna propri dove la pista finiva e lasciato loro qualche dono, seguire a piedi, con i miei pigmei, la riva, in cerca di tracce e… , non si sa mai, magari imbattermi in un sitatunga….
Dal campo al fiume vi erano diversi chilometri di pista diritta e sabbiosa, che chiamavamo “main road” (con un leggero sfottò per la pomposità inglese), percorsa usualmente dai forestiers, unici residenti bianchi di quelle remote aree.
La Toyota rotolava tranquillamente e con pochissimo rumore sul fondo regolare, io sedevo davanti tenendo l’express tra le ginocchia, accanto ad uno degli aiutanti francesi del campo (un martinicano di colore) ingaggiato come autista-tuttofare.
I nostri pigmei, arrampicati sul cassone, fumavano la loro erbaccia allucinogena avvolta in carta da giornale.
Doveva essere quasi una gita e tutti eravamo tranquilli e rilassati pensando ai casi nostri. Non avendone mai visti in quell’area, a tutto pensavo tranne che al dwarf buffalo.
La pista, dopo una larga curva, riprendeva il suo andamento rettilineo; come uscimmo dalla curva, un cento metri avanti, due bufali nani uscirono dalla foresta alla nostra destra, preparandosi ad attraversare e rituffarsi nel folto dall’altra parte.
Non so se fummo più sorpresi noi o gli animali.
Il mio francese pigiò sul freno, io saltai dalla macchina che ancora si muoveva, i bufali si avviarono per imboscarsi.
Imbracciai e sparai al secondo bufalo, dato che il primo stava già scomparendo nella vegetazione.
Fu un tiro affrettato, fatto al bersaglio grosso, per di più con mire metalliche. (Un tiro, insomma, di quelli che non bisognerebbe mai fare).
Incredibilmente il bufalo crollò sul posto senza fare neanche un passo. Data l’assoluta avventatezza del tiro, non ci credevo neppure io e una lunga esperienza mi diceva di tenermi pronto.
Non avevo fatto neppure il terzo passo in direzione dell’animale caduto infatti, che questo si rialzò prontamente, gettandosi nella foresta e dandomi solo il tempo di scaricargli dietro la seconda canna dell’express, anche questa volta senza alcuna precisione.
Rimasi per qualche istante immobile ed ancora incredulo, fin a quando i miei tre pigmei mi raggiunsero scendendo dal cassone.
Dato che il Francese poco capiva di caccia, mi rivolsi direttamente a loro per averne l’opinione.
Si consultarono brevemente poi il primo tracciatore, nel suo buffo petite français, mi disse che certamente il bufalo era stato raggiunto da tutti e due i colpi, non sapevano dove il primo, probabilmente all’addome il secondo.
Dove l’avesse colpito il primo, ormai, a me era chiaro: probabilmente alle creste spinali causandogli una momentanea paralisi, ma nessun serio danno. Quanto al secondo, condividevo l’opinione del tracciatore.
Non ci restava che andare a vedere. Lasciata la macchina dove si trovava, ricaricai l’express e, pigmei in testa, ci avviammo. Passai avanti poco prima del punto in cui, si vedeva bene sul terreno, il bufalo era caduto. Le tracce si inoltravano nella foresta a lato della pista. Su alcune foglie trovammo un po’ di sangue ad altezza compatibile con un brutto colpo al ventre.

Appena dentro, la visibilità fu subito ridotta a pochissimi metri. Decisi la formazione: avanti il primo tracciatore che aveva in comune con tutti i suoi simili vista olfatto ed udito estremamente sviluppati, dietro venivo io con l’express pronto, poi il secondo pisteur ed il ragazzo con lo zaino. Il francese, data la sua scarsa utilità a caccia, per non crearci ulteriori intralci, fu lasciato a presidio della macchina.
L’unica cosa che differenzia il dwarf dal cafro è la dimensione. Carattere, coraggio ed aggressività sono doti di famiglia. In quel fitto, dunque, occorreva essere molto accorti. Il preavviso di una carica, infatti, sarebbe stato brevissimo se non inesistente. Fidavo completamente sui sensi e la sveltezza del mio piccolo tracciatore.
I pigmei agguantarono la traccia e cominciammo a seguirla con una estenuante ma indispensabile lentezza, cercavamo anche, per quanto mi riguardava con scarso successo, di produrre il minor rumore possibile. Il bufalo poteva essere ovunque, fermo ad attenderci.
Camminammo forse per una mezzora poi, d’improvviso, il tracciatore si immobilizzò proprio sulla riva di uno di quei ruscelli che intersecano per ogni dove la foresta.
Sull’altra sponda, la vegetazione riprendeva fittissima con un denso di alberi da sottobosco dalle grandi e verdissime foglie.
Proprio verso quei cespugli indicava il mio pigmeo, immobile, muovendo solo leggermente l’indice un po’ a destra ed un po’ a sinistra, quasi a volermi definire l’esatta posizione del bufalo. Ma io, per quanto mi sforzassi, vedevo solo foglie. La situazione durava da alcuni minuti senza sbloccarsi quando, finalmente, raso terra mi parve di vedere una zampa del bufalo. Seguendola con le mire mi fermai a quella che ritenevo l’altezza giusta, ma proprio nel momento in cui stavo per tirare, un soffio ed un forte sfrascare segnalarono la partenza dell’animale. Il mio primo tracciatore mi guardò sorridendo rassegnato e, senza profferir verbo, si rimise sulla traccia.
Non voglio tediarvi con ripetizioni, vi dirò solo che, con piccole variazioni sul tema, avanti sera, la scena si ripeté un altro paio di volte. Le tracce però, mostravano che, fin dal primo incontro, il bufalo era rimasto solo, segno evidente di una ferita abbastanza importante.
Venne l’ora in cui dovemmo smettere e, preso nota del punto esatto in cui abbandonavamo la traccia, sconsolatamente ci apprestammo al ritorno.
Riuscimmo ad agguantare la pista che già faceva buio. Accesi la mia piccola torcia e, in non meno di un paio di chilometri, raggiungemmo la macchina.

due giorni di lavoro per aprirci un passaggio
Al campo, non fu una cena particolarmente brillante ma poiché difficilmente riesco a perdere il mio gagliardo appetito, complice un eccellente arrosto di ilochero ed una buona bottiglia, ripresi le speranze per il giorno dopo pensando che la ferita, prima o poi, avrebbe fatto il suo lavoro.
Eravamo alla frutta quando il martinicano mi disse che il nostro capo tracciatore chiedeva di conferire con noi. Conoscendo l’innata timidezza dei nostri piccoli uomini, mi alzai ed uscii dalla mensa incontro al nostro fido compagno. Egli, col suo divertente linguaggio, mi disse che i due fratelli pescatori che abitavano in riva al fiume possedevano un cane ben addestrato a seguire le tracce degli animali e che, se avessimo chiesto il loro aiuto, avremmo avuto migliori possibilità di trovare il bufalo ferito.
Accettai senza esitazione il buon consiglio e decisi che l’indomani, prima del sorgere del sole, ci saremmo recati alla capanna dei due fratelli.
Evidentemente, però, la fortuna non era con noi. Uno dei fratelli era andato, portandosi il cane, a trovare non so quali parenti e non sarebbe tornato prima di sera.
Poiché la sera stessa mi sarei trasferito presso la base dei forestiers ove avrei cenato, loro ospite, ed avrei dormito in attesa dell’aereo il mattino dopo, non mi restò che salutarlo, lasciargli qualche dono e ripartire.
Il resto della mattinata lo dedicammo ad un lungo ed altrettanto inutile inseguimento sulla traccia del nostro bufalo. Che dire di più? Tornato al campo, spesi il primo pomeriggio nella preparazione delle mie cose e, caricato tutto sulla Toyota, partimmo per la base dei forestiers, ove giungemmo sul far della sera

Venni accolto dal direttore con estrema cortesia e dopo aver sistemato i miei bagagli nella stanza destinatami, fatta una doccia e cambiatomi d’abito, mi recai a cena con i miei ospiti. Una cena piacevolissima nel corso della quale ebbi l’opportunità di conoscere Pére Benoit. Era questi un vecchio Missionario francese, altissimo e segaligno, con una fluente barba bianca che, mi raccontò, percorreva, con la barca sulla quale viveva, tutti i fiumi della zona, portando ai suoi pigmei aiuto, medicinali e la parola di Dio. Si era fermato anche lui presso la base avendo bisogno di urgenti riparazioni al suo natante, confidando nell’aiuto di quei connazionali che vivevano anch’essi in capo al mondo e che gli prestarono ogni possibile appoggio.
La conversazione, durante la cena, con quel grande Vecchio e la sua immensa esperienza di quelle sperdute zone, furono un arricchimento ed un piacere senza pari. Il suo spirito e la sua serena fede nella provvidenza, li ricordo ancora come un commovente insegnamento.
Mi dissero poi che Pére Benoit, ormai ottantenne, non aveva fatto più ritorno, scomparso chissà come in quel dedalo di acque e foreste che era stato per lunghissimi anni il suo territorio di apostolato.
Per tempo, il mattino dopo partii per Dualà con l’aereo degli amici tagliatori. Da Dualà a Parigi e poi a casa fu un buon viaggio senza storia.
Ed il bufalo ? L’avevo dato per perduto e mi ci ero rassegnato, ma….una decina di giorni dopo ricevetti un fax dal francese proprietario della compagnia. Cosa era accaduto ? L’amico pigmeo pescatore, ritornato a casa la sera del nostro ultimo giorno in foresta, informato dal fratello sull’accaduto, aveva voluto compensarmi dei doni ricevuti e, col cane ed i tracciatori, dopo un paio di giorni di ricerche, aveva finalmente trovato il mio bufalo morto ma ancora caldo, quasi sulla riva del grande fiume. Mi avrebbero mandato il trofeo.
Ecco perché in questo momento, alzando lo sguardo dalla tastiera del computer, sorrido compiaciuto guardando il mio dwarf buffalo appeso, con altri suoi simili, accanto al camino del mio studio.
Michelangelo
NOTA SUI BUFALI AFRICANI
Il bufalo africano “sincerus caffer caffer” è presente in tutto il territorio subsahariano escluse le aree più aride. Se ne citano diverse sottospecie, alcune accettate scientificamente, altre no.
Il “sincerus caffer nanus” o bufalo di foresta è il più piccolo dei bufali, con un peso che si aggira sui 300 chili (a differenza dei 900 dei grandi bufali di savana). Anche il colore è diverso tendendo al rossiccio. Il carattere invece è lo stesso per tutte le sottospecie.
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