
L’aria era pesante, satura d’una umidità palpabile, appiccicosa.
Nonostante il sole stesse sorgendo, faceva già molto caldo.
La foschia ristagnava in alto, nascondendo le chiome delle immense piante della foresta.
Sul grande fiume la nebbia si abbassava, celandoci l’altra riva.
Avevo deciso di fare ancora un tentativo con quel vecchio elefante dalle zanne poderose che, dieci giorni prima, avevo avvicinato e valutato senza poter sparare.
Dal giorno dopo l’avevamo tracciato quasi tutti i giorni, senza successo.
Una volta senza raggiungerlo, una volta incappando in uno dei due “ascari” che lo accompagnavano, una volta uno dei rari colpi di brezza in foresta …….. ma mai come a caccia, “spes ultima dea” e anche se un po’ fiaccati nel morale per i continui insuccessi, volevamo tentare ancora.

Con i miei tre pigmei formavamo una ben singolare squadra: un metro e quaranta, minuti, agili come anguille loro; un metro e novanta per cento chili io che, per quanto allora giovane ed agile, nel confronto mi muovevo con la grazia di un autoarticolato.
La traccia di un elefante, di un particolare elefante, non è difficile da seguire perché, come le nostre impronte digitali, è caratteristica di ogni individuo sicché un buon tracciatore la riconosce sempre e non la perde più.
La stavamo seguendo da 3 o 4 ore, lentamente, con i ghirigori che sempre in foresta si compiono, attenti alla brezza che di solito non c’è, ma se c’è continua a girare.
Uscimmo su di una vecchia pista tagliata dai “forestiers” ed abbandonata da lungo tempo, dal fondo semi allagato.
Il nostro, sempre accompagnato da un altro animale più giovane, l’aveva percorsa a lungo, fermandosi a cibarsi sulle tenere ricrescite laterali.
Potemmo accelerare l’andatura per un po’ prima di rituffarci nel folto e nella penombra che sempre vi regna anche a sole alto.
Ci fermammo a prendere fiato ai piedi di un gigante il cui tronco era quasi come una parete.
Come sempre quando ci si fermava, i due tracciatori, lasciandomi con il ragazzo che portava zaino e fucile, andavano in perlustrazione: “ On va a ecouter la forète, patron” dicevano, e sparivano in assoluto silenzio.
Fecero lo stesso anche allora.
Accesi una “Gauliose” umidiccia e mi sedetti, spalle al tronco.
Dovevo essermi assopito perché mi sentii toccare un piede e aperti gli occhi, mi trovai davanti il viso del capo tracciatore evidentemente, alla strana maniera dei pigmei, eccitato.
Con poche sussurrate parole e molti gesti mi fece capire che il nostro elefante non era lontano, che era tranquillo e stava mangiando e che lui aveva lasciato a sorvegliarlo l’altro tracciatore.
Non chiesi quanto ci sarebbe voluto per raggiungerlo perché, sulle unità di tempo, non è facile intendersi coi pigmei e calcolando mentalmente che era passata circa un’ora, mi alzai e feci segno di andare.
Andammo veloci per una buona mezzora poi rallentammo e capii che dovevo mettercela tutta per non fare rumore e nello stesso tempo per fare presto.
D’improvviso si materializzò il secondo tracciatore che ci fece cenno di fermarci ed indicò davanti a noi, leggermente a sinistra. Ordinai con un cenno al secondo tracciatore ed al portatore di rimanere dove erano.
Tesi il braccio indietro ed immediatamente mi sentii mettere in mano l’express 500 3” nitro con tutto il suo rassicurante peso. L’avevo caricato, una solid in prima ed una soft in seconda, messo in sicura e riconsegnato, poco prima. Con me avevo altre quattro cartucce.

Eravamo fermi da qualche minuto quando ci giunsero il rumore di un ramo spezzato ed un basso brontolio. “Che Dio ce la mandi buona” pensai ” se va male anche adesso, lascerò perdere”.
Non si muove un filo d’aria e, con una prudenza esasperante ed una tensione crescente, procediamo nella direzione da cui erano provenuti i rumori.
Nulla indica che l’animale o gli animali si siano spostati.
Cercando di muovermi all’unisono col mio tracciatore, avanzo ancora un poco quando mi appare, sopra la vegetazione bassa del sottobosco, il dorso scuro di un grosso elefante.
Il pigmeo, muovendo con prudenza anche gli occhi, mi fa capire d’esser sicuro che sia “lui”.
Siamo a quindici metri, forse meno, e nulla si muove.
Poi d’improvviso l’animale dondola un po’ e fa un passo avanti, esce da un grosso fascio di liane pendenti e mostrandomi una delle zanne che ben avevo impresse in mente, mi offre la tempia.
Mentre collimo penso : “ Dopo tutti questi giorni di fatica, adesso è troppo facile”, e lascio andare il colpo.
Mi arriva la robusta sberla del 500 ed il rumore, stranamente ovattato dalla vegetazione, si smorza.
Riallineo immediatamente e guardo cosa è successo. L’animale è scosso da un violento tremito e rovina a terra trascinando con se un intrico di verde.
Sento il fracasso del giovane ascaro che se ne va.
Più niente, resto immobile non saprei dirvi per quanto.
Riprendono i ronzii degli insetti, il berciare delle scimmie, il monotono canto degli uccelli : il re è caduto.

Il misto di esaltazione e tristezza, che solo un cacciatore conosce, mi prende mentre con le mani non ancora del tutto ferme accendo una sigaretta.
Oggi a questi ricordi s’aggiunge una nota di grande rimpianto per un mondo ed una età (anche mia, s’intende) che non ci sono più, e per il triste destino che dovette subire quel magnifico paio di zanne.
Bah…. Ad una sola cosa non c’è rimedio !, va là.
Michelangelo